“La casa degli sguardi”, presentata in anteprima alla 19esima Festa del cinema di Roma, e prossimamente nelle sale italiane con Lucky Red, è l’opera prima di Luca Zingaretti, ispirata all’omonimo libro di Daniele Mencarelli. Un esordio alla regia cinematografica che per l’attore romano, 62 anni, è arrivato dopo anni di regie teatrali e quella televisiva di alcuni episodi de “Il commissario Montalbano”.
Il dolore è necessario nella vita
«Questo racconto parla della capacità dell’essere umano di cadere e rialzarsi. Ma anche del dolore, così demonizzato nella nostra società, che va però accolto perché qualcosa di catartico, necessario nella vita che ci permette anche di tornare a vivere“. Questi i temi del film che Zingaretti ha sentito vicini. Ma ce ne sono ancora altri, come “il mal di vivere dei giovani, la genitorialità, il lavoro che ti radica e ti identifica, la forza dell’amicizia”. Quanto Marco rispecchia il mal di vivere dei giovani di oggi? “In questo mondo così veloce e istantaneo, soprattuto i giovani che provengono da una piccola realtà, possono sentire dentro di loro una certa inquietudine“, risponde Franchini.
La potenza del cinema
Nel film c’è una scena in cui i bambini ricoverati all’ospedale Bambino Gesù di Roma guardano in una sala cinematografica un film d’animazione. “L’esperienza del cinema riesce ancora oggi a scaldarci i cuori, a aizzare passioni – spiega Zingaretti – Viviamo, però, in una società raccontata ormai sempre in modi diversi e mi sembra che lo spazio per il cinema si stia restringendo, mentre il teatro è diverso, lì c’è una partecipazione molto più attiva del pubblico“. E Franchini conclude: “Il cinema per me è potentissimo. Può emozionare, far divertire, piangere, ha una linea diretta con l’animo umano. E andrebbe tutelato“.
Plot
Marco ha 20 anni e una grande capacità di sentire, avvertire ed empatizzare con il dolore del mondo, scrive poesie, e cerca nell’alcool e nelle droghe “la dimenticanza”, quello stato di incoscienza impenetrabile anche all’angoscia di esistere e di vivere.
Beve tanto Marco, beve troppo. È in fuga dal dolore ma soprattutto da se stesso. Per vivere si deve anestetizzare, dice. È incapace di “stare” nelle cose, a meno che il tasso alcolico del suo sangue non sia altissimo, e si è allontanato da tutti, amici e fidanzata, spaventati dalla sua voglia di distruggersi.
Anche il padre, testimone di questo lento suicidio, è incapace di gestire tanta sofferenza ma tenta almeno di “esserci”, la madre è mancata da qualche anno e ha lasciato un grande vuoto.
Quando dovrà andare a lavorare nella cooperativa di pulizie del Bambin Gesù è convinto che questa esperienza, a contatto con i bambini malati, lo ucciderà.